Un sentimento m'è inesorabolmente glissato,
tra i lubrici, irremeabili meandri di Chronos.
Dei miei ircocervi onirici più non mi esalto,
quasi suggestioni frustrate,
che su stelle aliene ha disperso, di Lachesi,
l'ineluttabile fuso della vita,
banalmente, ovviamente.
Disorientato son io, senza lucidità, nel piceo labirinto,
in quegli anfratti tortuosi, tormentosi, dove,
quasi tempeste di furia bestiale,
riverberano spasmodici sussulti d'amore,
quasi clangori d'immobilizzanti catene.
Il cuore, lì,
lacerato mi hanno i sentimenti.
Il cuore,
senza paura che da lì non fugge,
quasi eroe,
né ipocrita,
né stoico,
da lì non fugge.
Cos'altro, se non un eroe,
Agiado Leonida,
alle pendici del Kallìdromon,
impaniato nelle bollenti Termopili,
non fugge al cospetto delle orde di Serse.
Ora cinico, tuttavia,
le Moire asseconda.
Ed intanto,
quasi acuminata, un'algida spada,
dentro le piaghe si agita
e rosso dolore rigetta l'oblio.
Rosso dolore,
dalle lame di terebrante rubino.
Rosso dolore, che mai avevo provato.
Rosso dolore: lachesiano anatema del mio labirinto.
Rosso dolore, ed io, Prometeo, mi ribello,
invero,
al quale arrendermi non voglio.
Al mio cospetto, là,
dentro la psiche,
diafano percepisco un profilo,
d'ogni cosa che fu,
ch'eternamente tormenta:
una larva,
aliando,
druda,
nella dimensione dei rimpianti vissuti,
degli oblii annegati,
in mezzo alle nuvole, perdendo purezza.
Nella dimensione di vizze,
rosse camelie di speranza,
di laceranti passioni sfuggite.
E cosa importa, dopotutto,
dopotutto ch'io abbia trionfato,
o ch'io sia stato relegato nel brago!?
Un plesso inestricabile
il mio labirinto eternamente sarà!?
Cloto ha filato lo stame del mio labirinto,
Lachesi lo ha svolto sul fuso,
Atropo, con lucide cesoie,
inesorabilmente,
finalmente,
senza dolore,
lo reciderà!